L’ennesimo massacro di cristiani in Nigeria, con cui
alcuni zelanti seguaci di Allah hanno inteso “festeggiare” a modo loro il
Natale di Gesù, pone in evidenza un gigantesco problema che in pochi, anche tra
coloro che per cultura e storia personale dovrebbero farlo, hanno il coraggio
di chiamare per nome: l’islam e la libertà (e in particolare la libertà
religiosa) sono due rette parallele che non s’incontrano mai. A differenza del
cristianesimo, che esalta la libertà della persona all’ennesima potenza, al
punto di prevedere la possibilità di un rifiuto della grazia divina da parte
dell’uomo senza che ciò comporti il venir meno dell’amore di Dio per la sua
creatura, l’islam, come dice il nome stesso, è pura sottomissione alla volontà
di Allah: chi non si sottomette diviene per ciò stesso un essere con dignità
minore se non nulla, un infedele da convertire con le buone o con le cattive, e
infine, nel peggiore dei casi, carne da macello da sacrificare sull’altare dell’Onnivolente.
La libertà del cristiano si fonda sul dinamismo
trinitario e, in ultima istanza, sull’evento dell’incarnazione del Figlio in
Gesù Cristo, sull’ingresso carnale di Dio nella storia degli uomini:
l’Altissimo si abbassa fino ad assumere la condizione umana: in una mangiatoia,
nel Getsemani, sul legno della croce. “Dio si è fatto uomo – dice sant’Agostino
– affinché l’uomo diventasse Dio”, ed in ciò è implicata pienamente la libertà
della persona, che può scegliere di aderire o meno all’annuncio di salvezza
portato dal Nazareno. Può, come il giovane ricco di cui parlano i Vangeli,
voltare le spalle alla Verità fatta carne. E la conseguenza di tale rifiuto non
è l’essere additato come un infedele, ma la tristezza esistenziale. Nell’islam,
invece, Dio non si china sugli uomini facendosi uomo, non è una presenza
tangibile nella storia, ma rimane pura volontà che dall’alto chiede, come
detto, sottomissione e non amore. E la sottomissione cancella la libertà,
mentre l’amore la esalta.
Se non si comprende – o se si finge di non comprendere –
tutto ciò, porre la questione del rapporto tra cristiani e musulmani soltanto
in termini di mancata reciprocità nell’esercizio del diritto alla libertà
religiosa diventa un mero flatus vocis da anime belle, da consumati burocrati onusiani
capaci di produrre un numero di bei documenti inversamente proporzionale ai
risultati concreti ottenuti. Se non si dice, se non si riconosce apertis verbis
che il discrimine tra la civiltà cristiana (la cristianità e l’Occidente che da
essa ha preso forma) e la civiltà islamica non sta nell’esercizio di un diritto
di libertà, ma nella libertà stessa (e quindi nell’idea stessa di persona,
essendo la libertà l’essenza dell’essere umano), ogni richiamo alla reciprocità
non può, non potrà sortire alcun effetto. Tanto più se, accanto a questo
richiamo, si continuerà a cianciare a vuoto di “primavera araba” senza vedere
che l’unico effetto che tale “primavera” ha prodotto è stato, fino ad oggi,
quello di abbattere regimi certamente autoritari ma altrettanto certamente
meglio disposti nei confronti dei cristiani rispetto a quelli che andranno ad
instaurare i Fratelli Musulmani in Tunisia ed Egitto e i fondamentalisti di
Bengasi in Libia. La primavera araba è l’inverno della libertà dei cristiani in
quei paesi. E non è un caso se Ben Ali, Hosni Mubarak e Muammar Gheddafi
fossero ritenuti “infedeli” da molti dei loro stessi correligionari.
Bisogna
dunque aprire gli occhi, rimuovendo quella patina di ipocrisia che impedisce
anche a noi occidentali di vedere le differenze tra religioni e tra civiltà, di
capire cioè dove sta la vera differenza cristiana e occidentale rispetto
all’islam. Il politicamente corretto ci additerà come intolleranti, razzisti e infine
islamofobi, come accadde a Benedetto XVI dopo la sua memorabile lectio magistralis di Ratisbona. Ma ne avremo guadagnato in verità e in coscienza di
noi stessi. Il che non è poco.
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