mercoledì 28 dicembre 2011

L’ISLAM E LA LIBERTÀ NEGATA

di Gianteo Bordero

Se non si riconosce apertis verbis che il discrimine tra la civiltà cristiana e la civiltà islamica non sta nell’esercizio dei diritti di libertà, ma nella libertà stessa, ogni richiamo alla mancanza di reciprocità non può e non potrà sortire alcun effetto.

L’ennesimo massacro di cristiani in Nigeria, con cui alcuni zelanti seguaci di Allah hanno inteso “festeggiare” a modo loro il Natale di Gesù, pone in evidenza un gigantesco problema che in pochi, anche tra coloro che per cultura e storia personale dovrebbero farlo, hanno il coraggio di chiamare per nome: l’islam e la libertà (e in particolare la libertà religiosa) sono due rette parallele che non s’incontrano mai. A differenza del cristianesimo, che esalta la libertà della persona all’ennesima potenza, al punto di prevedere la possibilità di un rifiuto della grazia divina da parte dell’uomo senza che ciò comporti il venir meno dell’amore di Dio per la sua creatura, l’islam, come dice il nome stesso, è pura sottomissione alla volontà di Allah: chi non si sottomette diviene per ciò stesso un essere con dignità minore se non nulla, un infedele da convertire con le buone o con le cattive, e infine, nel peggiore dei casi, carne da macello da sacrificare sull’altare dell’Onnivolente.

La libertà del cristiano si fonda sul dinamismo trinitario e, in ultima istanza, sull’evento dell’incarnazione del Figlio in Gesù Cristo, sull’ingresso carnale di Dio nella storia degli uomini: l’Altissimo si abbassa fino ad assumere la condizione umana: in una mangiatoia, nel Getsemani, sul legno della croce. “Dio si è fatto uomo – dice sant’Agostino – affinché l’uomo diventasse Dio”, ed in ciò è implicata pienamente la libertà della persona, che può scegliere di aderire o meno all’annuncio di salvezza portato dal Nazareno. Può, come il giovane ricco di cui parlano i Vangeli, voltare le spalle alla Verità fatta carne. E la conseguenza di tale rifiuto non è l’essere additato come un infedele, ma la tristezza esistenziale. Nell’islam, invece, Dio non si china sugli uomini facendosi uomo, non è una presenza tangibile nella storia, ma rimane pura volontà che dall’alto chiede, come detto, sottomissione e non amore. E la sottomissione cancella la libertà, mentre l’amore la esalta.

Se non si comprende – o se si finge di non comprendere – tutto ciò, porre la questione del rapporto tra cristiani e musulmani soltanto in termini di mancata reciprocità nell’esercizio del diritto alla libertà religiosa diventa un mero flatus vocis da anime belle, da consumati burocrati onusiani capaci di produrre un numero di bei documenti inversamente proporzionale ai risultati concreti ottenuti. Se non si dice, se non si riconosce apertis verbis che il discrimine tra la civiltà cristiana (la cristianità e l’Occidente che da essa ha preso forma) e la civiltà islamica non sta nell’esercizio di un diritto di libertà, ma nella libertà stessa (e quindi nell’idea stessa di persona, essendo la libertà l’essenza dell’essere umano), ogni richiamo alla reciprocità non può, non potrà sortire alcun effetto. Tanto più se, accanto a questo richiamo, si continuerà a cianciare a vuoto di “primavera araba” senza vedere che l’unico effetto che tale “primavera” ha prodotto è stato, fino ad oggi, quello di abbattere regimi certamente autoritari ma altrettanto certamente meglio disposti nei confronti dei cristiani rispetto a quelli che andranno ad instaurare i Fratelli Musulmani in Tunisia ed Egitto e i fondamentalisti di Bengasi in Libia. La primavera araba è l’inverno della libertà dei cristiani in quei paesi. E non è un caso se Ben Ali, Hosni Mubarak e Muammar Gheddafi fossero ritenuti “infedeli” da molti dei loro stessi correligionari.

Bisogna dunque aprire gli occhi, rimuovendo quella patina di ipocrisia che impedisce anche a noi occidentali di vedere le differenze tra religioni e tra civiltà, di capire cioè dove sta la vera differenza cristiana e occidentale rispetto all’islam. Il politicamente corretto ci additerà come intolleranti, razzisti e infine islamofobi, come accadde a Benedetto XVI dopo la sua memorabile lectio magistralis di Ratisbona. Ma ne avremo guadagnato in verità e in coscienza di noi stessi. Il che non è poco.   

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