di Gianteo Bordero
La politica, disse una volta Rino Formica, è “sangue e merda”.
Oggi gli chef del pensiero unico montiano ce la vorrebbero
servire nel piatto fredda, scipita e ipocalorica. Ma così non è più politica: è
una pessima sbobba che non nutre la vita di una nazione.
C’era una volta un governo politico espressione della
volontà (e della sovranità) popolare. C’era una volta… e adesso non c’è più.
Ora ci sono loro, i cosiddetti “tecnici”, modestamente autoproclamatisi “salvatori
dell’Italia” per decreto. Salvatori della patria, perché “la politica non ce la
faceva proprio”, “non si è dimostrata all’altezza”, “doveva farsi da parte”,
come per giorni e settimane e mesi ci hanno ripetuto senza posa gli opinion
makers de noantri, gente invero adusa ad obbedir tacendo e a inchinarsi al
padrone di turno piuttosto che a raccontare la realtà per quella che è. E la
realtà, appunto, è che un esecutivo (valoroso o bislacco sta a ciascun dirlo) voluto
dalla maggioranza degli italiani nel segreto dell’urna è stato spazzato via per
essere sostituito da ministri, viceministri e sottosegretari che nessuno, dicasi nessuno,
aveva mai votato e, in qualche caso, neppure sentito nominare per caso.
Forse, anzi certamente, siamo affetti dal più becero
populismo, e siamo ancora nostalgicamente legati (ahinoi, al cuore non si
comanda!) alla vecchia idea su cui si reggono tutte le grandi democrazie
parlamentari, in cui il governo è espressione della maggioranza uscita
vincitrice dalla competizione elettorale.
Per fortuna, però, a smentire questo nostro populismo ci
pensa, come al solito con viva apprensione, il presidente della Repubblica, il quale non si
stanca di ripetere che la Costituzione italiana prevede che un esecutivo possa
essere nominato dal capo dello Stato senza essere stato votato da nessuno. Ha
ragione da vendere, il nostro caro Giorgio: il Sacro Testo quello dice, e
quello si fa, anzi va fatto. Al diavolo tutti coloro che cianciano, sulle orme
di Costantino Mortati, di “Costituzione materiale”. Al bando chi sostiene che, in seguito alla svolta del ’92-’94, con i referendum
elettorali da un lato e con la nascita del bipolarismo dall’altro, ha di fatto visto la luce l’elezione
diretta del premier (pardon, del presidente del Consiglio). Meglio poggiarsi
sulla cara vecchia Carta, meglio affidarsi all’usato sicuro, riportando in auge
la gloriosa prassi dei governi a maggioranza casuale e variabile, fondata su
partiti che in campagna elettorale avevano proposto idee e programmi antitetici
ma che, richiamati saggiamente dall’alto Colle al senso di responsabilità, disarmano
e collaborano insieme al mitico “bene comune della nazione”, mettendo da parte
quella brutta cosa che è la dialettica, quel duello tra visioni, proposte e progetti
di cui, da che mondo è mondo, si nutrono le democrazie.
Perché - ragionano gli uomini d’illuminato senso
istituzionale - se la politica è "scontro perenne", se è "la prosecuzione della guerra con altri mezzi",
allora a morte la politica: meglio un governo tecnico “per la pace perpetua”. In
primis per la pace dei sensi, anche del palato forse un po’ contadino di
noialtri che ancora ci appassioniamo a quella strana ma nobile cosa che la
Politica con la P maiuscola è – o dovrebbe essere.
La politica, disse una volta il grande Rino Formica, è “sangue e merda”. Oggi gli chef del pensiero unico montiano ce la vorrebbero
servire nel piatto fredda, scipita e ipocalorica. Ma una politica disincarnata,
sciolta dalla storia e dalla vita concreta dei popoli, non è più politica: è
una pessima sbobba che non nutre, non può nutrire l’intelligenza e i cuori, e che, lungi dal “salvare”
una nazione, ne prepara invece la dissoluzione per via depressiva.
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