martedì 24 gennaio 2012

EROI NON PER CASO

Di Raffaele Iannuzzi

"Molto si è detto sul caso Schettino e sul caso De Falco. Due uomini, due paradigmi di comportamento umano. Codardo e fellone, il primo; coraggioso, forte, il secondo. Inutile insistere e rendere ancora più insopportabilmente nauseante la realtà dei fatti"

L’audio scioccante della telefonata del capitano Gregorio Maria De Falco all’ormai famigerato comandante Francesco Schettino è entrato nella galleria dei generi letterari. Anzi, dei generi della narrazione contemporanea, delle piazze globali contemporanee, così cariche di orrori, errori e devastazione morale. Molto si è detto sul caso Schettino e sul caso De Falco. Due uomini, due paradigmi di comportamento umano. Codardo e fellone, il primo; coraggioso, forte, il secondo. Inutile insistere e rendere ancora più insopportabilmente nauseante la realtà dei fatti. Le chiacchiere stanno a zero, come si dice a Roma. Parlano i fatti. Quel che colpisce, piuttosto, è un’osservazione della moglie del capitano De Falco, Raffaella. Quest’ultima si è stupita del fatto che il semplice adempimento del dovere da parte di un ufficiale induca le persone e i mass media a considerare un eroe tale ufficiale. “Questo non è normale”. Infatti, non è “normale”. Perché la “normalità” è un concetto di ordine statistico, che fa la tara e la media tra il più e il meno, l’alto e il basso, dopodiché produce un dato medio, che schiaccia verso il basso ciò che sta sopra, e innalza verso l’alto ciò che sta sotto, quel tanto che basta per livellare. Ma in questo caso non ci sono livelli in gioco. Neanche umani. C’è la differenza fondamentale tra chi segue la sua vocazione fino in fondo – “soccorrere”, ha affermato seccamente, De Falco – e chi la tradisce fino al fondo dell’abisso. Sì, certo, c’è uno Schettino in ciascuno di noi, è stato osservato correttamente. Ma questo non spiega e non descrive niente. E’ quel “quid pluris” tra De Falco e Schettino che rende l’uomo “poco meno degli angeli” e “coronato di gloria e onore”, come recita il salmo 8. E’ la storia a scegliere i suoi eroi e gli uomini che seguono la propria vocazione fino in fondo, coloro che sono trascinati da un dàimon interiore, che abita la propria anima, non si tirano indietro. E’ l’umiltà a non far pronunciare loro la parola “eroe”, ma l’umiltà, come diceva Santa Teresa di Lisieux, è la verità. La verità di sé. Quando De Falco mette in gioco – come ha ripetutamente fatto – la categoria di “vocazione”, in realtà, va ben oltre la dimensione espressiva dell’eroismo, si nutre di anima generativa e compassionevole. Non c’è niente di “normale” in questa posizione, è vero, ma. Nello stesso tempo, è nel “normale” compimento del proprio dovere l’inveramento di questa assai poco “normale” dimensione. Paradossale ed energicamente votato a permanere nella memoria. Un capitano che soccorre davvero gli uomini in difficoltà prende il comando. “Sono io che prendo il comando”, ha ingiunto il capitano De Falco al comandante Schettino. Comanda chi segue la propria vocazione fino in fondo. E’ capo chi governa la barca, la nave e la propria vita. E’ capo chi ha una fede da vivere e difendere, principi da salvare, uomini da amare. Tutto qua. E’ questa la differenza ontologica tra De Falco e Schettino. La Bibbia presenta tipi umani con differenze radicali, ben sapendo che, sopra di loro, c’è il Dio “amante della vita”, che tutto giudica e “fa piovere sui giusti e gli iniqui”. Ciononostante, Erode rimane Erode e David rimane David. E’ tutto chiaro. Abbiamo formato un paio di generazioni di codardi, oggi paghiamo il prezzo di questo misfatto. Nel nichilismo, si dimentica l’origine dell’aggettivo qualificativo “codardo”: e’ detto del falco cacciatore che tiene la coda bassa. Troppo bassa. “Lei ha dichiarato l’abbandono nave, adesso comando io! Salga a bordo, cazzo!”. Ecco il punto di svolta: uno abbandona, l’altro comanda, perché segue un altro criterio, un altro ordine ontologico, spirituale, morale. “E’ buio”, sibila pateticamente Schettino. Replica De Falco: “E che vuole tornare a casa. Schettino, perché è buio, vuole tornare a casa?!”. Ma non può tornare a casa, perché l’anima vagante casa non ha. Non è un sigillo naturale, è la risposta ad un appello. Sono le risposte a cambiare perfino lo spessore delle domande. Oggi, forse, molti più uomini di ieri si domanderanno come sia stato possibile giungere fino al punto limite di questo disastro. La risposta è nell’eccesso di “normalità” priva di risposta del cuore. Ad un appello che viene dall’alto.


sabato 21 gennaio 2012

LESBOINGEGNERIA

Di Raffaele Iannuzzi

"la libertà, inesistente senza il fondamento naturale della vera identità del singolo, salta. In un mondo così cinicamente invaso dalla retorica sulla “libertà”


Due mamme americane e lesbiche, Pauline Moreno e Debra Lobel, hanno adottato un bimbo, Tommy. Tommy da tre anni prende ormoni, che gli bloccano la crescita sessuale, così da poter scegliere, all’età giusta (quale?), la sua identità sessuale. Già, perché le due donne, sposatesi in sinagoga nel 1990, hanno già capito e deciso tutto: Tommy – oggi chiamato Tammy – voleva diventare donna. Le sue crisi e i suoi turbamenti psichici – tanto gravi da essere diagnosticati come GID – Gender Identity Disorder – derivano dal fatto che, come uomo, proprio non ci sta, non sono i suoi panni, come accade con un abito o troppo stretto o troppo largo, ci vuole, dunque, la “giusta” misura. E chi può decidere la “giusta” misura dell’identità sessuale di un bambino? Intanto, le due zelanti mamme lesbiche ebree progressiste, che hanno già tracciato la personalissima filosofia della storia del povero bambino – bambina in nuce, a loro insindacabile giudizio – e, a scanso di difficoltà ulteriori, gli si blocca violentemente la crescita sessuale. Perché? Ma perché la crescita sessuale è schifosamente naturale, dunque contraria all’ideologia del pensiero unico lesbico-omosex, per il quale chiunque non può trovare comodo l’assetto naturale del suo essere individuale, “deve” per forza voler essere altro. Poi che le crisi derivino proprio dal fatto che il transgender è un capestro che rompe il collo e strozza il fiato del vivere appunto naturale (stavolta senza virgolette) di una giovane creatura, per carità, neanche a pensarci. Insomma, alla fine, hanno sempre ragione loro e ciò al di là delle ragioni razionalmente declinate e del puro buon senso, della realtà, della tradizione umana, laica, perfino agnostica, atea, non credente. Un sentiero – oggi interrotto – che ha posto le basi del retto pensiero: anche per un materialista novecentesco, un uomo era un uomo e una donna una donna. Oggi no, perché dentro il cuore dell’ideologia lesbico-transgender c’è un qualcosa di più che proviene dal maligno, da Satana, tanto per essere chiari: siamo oltre l’evangelico “sì, sì, no, no, il di più viene dal maligno”. E, infatti, domina il pensiero maligno della de-formazione dei fatti nudi e crudi, della realtà come tale, la più semplice, immediata, evidente. Come il diavolo è la scimmia di Dio, questa poltiglia grigiastra e pestifera somiglia alla libertà – per un certo numero, assai ristretto di persone, dunque la solita minoranza aggressiva e agguerrita -, ma, in realtà, è il totalitarismo più smaccato. Qual è il fulcro del totalitarismo? Quello già presente in Hobbes, poi rideclinato nel comunismo e nel nazismo: la realtà è artificio. Il Leviatano è, per Hobbes, “deus mortalis”, il dio mortale, la divinità alla quale soggiacere; e questo meccanismo statuale e coattivo, inscritto in una morsa meccanicistica, fatta di molle e ingranaggi, usa le persone per un progetto superiore che solo pochi eletti possono conoscere. Tommy non sa chi sia Hobbes, ma sa perfettamente chi siano le due poliziotte lesbiche che gli stanno addosso da anni, dunque è come se conoscesse a menadito la faccenda. È la stessa cosa. Pauline e Debra hanno un progetto su Tommy – anzi, su Tammy – e sanno già a priori ciò che è giusto e sbagliato per lui. Non sono affatto relativiste, relativizzano l’assoluto naturale – nel senso di ab-solutus, sciolto da ogni altra valutazione ideologica preconcetta: o si è maschi o femmine – per sostituirlo con la loro ideologia. Che poi il bambino stia male e domani sia un poveraccio o una poveraccia senza volto e profilo identitario, poco importa: è la tensione al “bene” del male che ho scelto di inverare che conta. Così, il nazismo ha imposto il nichilismo pagano sulla società tedesca; così, Stalin si è inventato lo strumento dei piani quinquennali, trasformando la tradizionale società russa in un laboratorio della rivoluzione sovietica. Lo Stato decide l’identità dei popoli e la natura degli individui. Al sesso ci pensano le mamme lesbiche. Ma il meccanismo demonicamente totalitario è lo stesso. Mentre la libertà, inesistente senza il fondamento naturale della vera identità del singolo, salta. In un mondo così cinicamente invaso dalla retorica sulla “libertà”.

lunedì 16 gennaio 2012

CONFORMISMO OMOSEX

"Esiste un legame funzionale tra le scelte inerenti al comportamento sessuale dell'individuo e la sua visione politica? Direi proprio di si".

Di Francesco Natale



Qualche anno fa Massimo Introvigne sostenne che l'unica pregiudiziale praticabile oggi è quella anti Cattolica: se da un lato è possibile, quindi, sparare ad alzo zero sul Papa, sul Vaticano, sui preti che sono tutti pedofili nessuno escluso, dall'altro la massima attenzione deve essere prestata quando si parla di minoranze etniche e religiose, quando si parla di immigrazione, quando la difesa di principi non negoziabili discendenti dal Diritto Naturale impone lo scontro politico contro le lobby più disparate, da quella dei "razionalisti" irragionevoli (vedi alla voce UAAR) a quella, in particolare, LGBT (lesbian-gay-bisex-transgender). Il fatto che di lobby si tratti, se necessità ulteriore ci fosse di dimostrarlo, sta proprio nel fatto che questi ultimi si sono pure muniti di apposito acronimo dalla valenza internazionale.

In quanto lobby, ovvero gruppo di pressione, la gang LGBT è portatrice di interessi politici particolari (e non universali) che incidono o, comunque, mirano ad incidere in maniera significativa nella sfera soggettiva e intersoggettiva di tutti i consociati, che questi lo vogliano o meno.

Interessi politici particolari contro i quali non è possibile porre argine dialettico, a causa del conformismo imperante e della iperframmentazione linguistica che ribalta, stravolge e distorce il senso elementare delle parole, le quali cessano di avere un legame con la cosa che dovrebbero definire (la res, propriamente: da qui "Realtà") e divengono semplicemente nebbia: "parole di nebbia", appunto, come da felice definizione di Luca Ricolfi.

E'l'essenza perversa del cosiddetto "politicamente corretto", la forma più devastante di conformismo linguistico, antitetico rispetto alla "rosa" di Gertrude Stein, un "codice" di regole non scritte quotidianamente aggiornato il cui scopo principale consiste nel fare filtrare osmoticamente ciò che appartiene alla categoria dell'innaturale verso il suo opposto ontologico, ovvero il naturale, attribuendo una valenza demiurgica alla parola che diviene semplice contenitore privo di qualsivoglia contenuto: e così la "rosa" può diventare "banana", il "cane" può diventare "elefante", la "costituzione" diviene interscambiabile con "Dio". E guai a chi si ostina a sostenere che "una rosa è una rosa", qualora questo semplice atto cognitivo rispondente a Realtà rischi di risultare inopportuno, offensivo, potenzialmente settario o discriminatorio: si viene automaticamente esclusi dalla cerchia delle "anime belle" per essere rispediti con disonore nella fossa dei trogloditi.

Questo è il danno più grave che la correttezza politica ha inflitto alla nostra Realtà: ha riscritto giorno dopo giorno le regole della nostra convivenza civile, che "civile" non può più essere perché ormai fondata esclusivamente sull'oltraggio sistematico e diuturno alla Verità.

E, a pena di essere marchiati a fuoco come barbari incivili, tutti devono piegarsi a questo circo di acrobazia linguistica il quale, annichilendo l'aderenza al reale della parola e trasformando così ogni discorso, ogni dibattito, ogni scontro dialettico in una insostenibile passeggiata sulle uova ha completamente svuotato di significato la giusta, legittima e sacrosanta diatriba politica: perché ogni logos realmente politico implicherà l'accensione di un conflitto con una o più controparti e l'idea stessa che possano esistere soluzioni politiche a costo zero, ovvero postulanti la possibilità che nessuno si faccia male e che non siano lesi gli interessi di nessuno è come minimo infantile, quando non apertamente criminale.

Ne sa qualcosa l'ex assessore alla mobilità del Comune di Lecce, Giuseppe Ripa, il quale è stato costretto alle dimissioni dopo aver scritto sulla pagina Facebook del Sindaco Paolo Perrone che Nichi Vendola è "una femminuccia afflitta da turbe psichiche", in riferimento allo stato disastroso della sanità in Puglia.

La dissociazione dalla parole di Ripa è stata immediata: dal Sindaco Perrone agli organi periferici del PDL tutti si sono affrettati a stigmatizzare le parole dell'ex assessore, profondendosi in scuse umiliatissime verso Vendola e richiedendo a gran voce, torce e forconi alla mano, la testa di Ripa.

La cosiddetta "stampa di (ex) regime", ovvero il "Giornale" ci ha messo del suo, accostando le dichiarazioni pecorecce di Ripa a quelle paranaziste di qualche scalmanato leghista che tempo addietro propose l'apertura di forni crematori per i Rom e la castrazione chimica per impedire agli extracomunitari di riprodursi troppo velocemente. Guerra a tutto campo e senza quartiere, insomma, cui ha fatto seguito la prevedibile Untergang di Ripa, grazie in particolare non tanto ai rappresentanti dell'Arcigay, quanto alla solerte opera di "correzione politica" dei suoi stessi compagni di partito. Vendola ha prudentemente taciuto, ben conscio che il suo silenzio avrebbe fatto da catalizzatore per la reazione autonoma, tutta "made in Stoccolma", del PDL pugliese evidentemente afflitto da gravissimo complesso di inferiorità e ansioso di dimostrarsi "micio, bello e bamboccione" agli occhi severi della lobby LGBT. La quale oggi può vantare di avere fatto silurare, e senza nemmeno essersi sporcata le mani in prima persona, un assessore di un importante comune del Sud Italia. Chapeau, niente da dire.

Ora, non interessa qui stabilire se Ripa sia stato o meno un assessore buono o mediocre, né connotare come più o meno opportune le sue esternazioni su un canale, per altro, non istituzionale quale è Facebook, quanto più sviluppare considerazioni realmente, una volta tanto, politiche.

In primo luogo: esiste un legame funzionale tra le scelte inerenti al comportamento sessuale dell'individuo e la sua visione politica? Direi proprio di si.

Soprattutto per quanto riguarda l'approccio politico a quei principi non negoziabili cui accennavamo poc'anzi.

E'infatti assolutamente lecito pensare che l'agenda politica di Nichi Vendola in materia di "unioni civili", adozione per single o coppie gay, somministrazione della pillola abortiva RU486, supporto o negazione del medesimo ai medici obiettori di coscienza, endorsement del "Gay Pride" con eventuale cospicuo pubblico finanziamento, istruzione scolastica primaria atta alla equiparazione delle "diverse famiglie" (vedi alla voce Pierfrancesco Majorino) sia sostanzialmente divergente da quella del Governatore Roberto Cota.

Questo non solo per una specifica appartenenza politica, ma anche, giocoforza, per la specificità di una scelta comportamentale in apparenza personale, ma che in realtà si traduce in azione politica generale per tutti i consociati.

E allora, assodato che da una scelta personale discendono approcci politici ben delineati, non c'è nulla di fascista, di settario, di discriminatorio nel sostenere con limpida chiarezza che molti elettori, compreso il sottoscritto, non vogliano essere amministrati da un omosessuale.

Non per questioni di carattere moralistico, attenzione, perché questo sarebbe riduttivo e ci costringerebbe a giocare secondo le regole, politicamente corrette of course, dell'avversario, ma per una questione prettamente politica.

Fermo restando il fatto che l'Uomo è tale sempre e comunque, e quindi ha sempre dignità e diritti soggettivi, le scelte che questo compie sono invece perfettamente opinabili, criticabili o apprezzabili, soprattutto se dette scelte comportano l'accoglimento di istanze particolari antitetiche, quindi apertamente confliggenti, con principi non suscettibili di secolarizzazione.

Quindi liberissimo Vendola di candidarsi, coagulare consenso riguardo a determinate battaglie "moderniste" ed, eventualmente vincere le elezioni regionali così come le primarie del PD: nessuno ha la benché minima intenzione di impedirglielo sulla base di criteri puritani stantii come il formaggio ammuffito e assolutamente antipolitici.

Allo stesso modo non c'è nulla di irrispettoso, retrogrado o abominevole nel sostenere apertamente che la sua omosessualità, per altro mai nascosta, possa rappresentare uno scrimine politico determinante perfettamente rispondente al libero esercizio dei propri diritti soggettivi. Bollare tale libera espressione come inaudita, inopportuna e discriminatoria, questo sì, sarebbe fascismo allo stato puro...




sabato 7 gennaio 2012

Anno 2012: Attaccare l'egemonia bancaria


Ho fatto un sogno. Un bel sogno. Dopo 6 mesi di 2012 da odissea nello spazio in cui il Professore Bocconiano continuava a fare conferenze stampa vestito da frate indovino invocando sacrifici al popolo puntualmente bruciati al rogo dello spread e dagli interessi sul debito, il popolo iniziava  ad assediare le banche. Fuori i quattrini è tempo di dare fuori la moneta sonante è il grido. Annichilimento dei grassi banchieri,  destrutturazione del sistema dell'interesse usuraio e credito incondizionato per un biennio. Esiti eccezionali per una crisi eccezionale. Altrimenti ci arrabbiamo.  Ma qual' è la colpa delle banche, qual'è il loro disegno perverso? Perché meritano di essere espropriate? Pochi sanno che gli istituti di credito inondati di liquidità non meno di due settimane fa, circa 500 miliardi di euro di elargizione in asta illimitata a tre anni organizzata dalla BCE, hanno depositato più o meno la stessa cifra presso la Banca Centrale per ricevere un tasso di interesse di appena 0,25. Insomma i soldi sono tornati da dove erano usciti perché anzichè foraggiare l'economia reale, ovvero imprese, famiglie, carne e sangue per intenderci, i grassi banchieri hanno preferito congelare l'enorme mole di liquidità stampata da Draghi, che per virtù del dogma che sta impiccando l'Europa non può prestare agli Stati ma soltanto agli istituti di credito, per farla fruttare allo 0.25 di rendimento. Una vera e propria carognata. Mentre il dramma sociale  aumenta giorno dopo giorno, le banche giocano ancora sulla pelle delle persone concentrandosi su operazioni di intelligence finanziaria. A questo punto, dopo cotanta e scellerata viltà  del sistema bancario ecco, all'alba del 2012, materializzarsi il sogno. La piazza che avanza al grido "rapinare le banche non è reato". Un prelievo straordinario da parte del pueblo unito. Caveau aperti e moneta sonante alla portata di tutti. Nessun atto di forza sono loro a dover aprire le porte. Altrimenti ci arrabbiamo. E poi che succede?. Tutti a marcire in galera?. Ma no dai in fin dei conti cosa mai può accadere a questi simpatici aguzzini? La rovina? Non sia mai. Al massimo dite a Herr Mario di elargire altri 500 miliardi di euro. Basta stampare più e più volte quella pessima banconota chiamata Euro ed è fatta. Almeno i grassi banchieri prima di congelare nuovamente i miliardi in depositi allo 0.25 di interesse ci penseranno un pò su. Pena un altro prelievo forzoso del popolo incazzato. Qualcuno ci dovrà pur pensare a dare ossigeno alla celeberrima economia reale. 
di Savonarola                       

mercoledì 4 gennaio 2012

Due copioni, una scelta

I copioni fanno la storia. La storia dei singoli e delle nazioni. Lo schema dell'analisi transazionale di Berne ne individua le caratteristiche strutturali. Gli uomini si muovono secondo movenze definite e determinate: copioni ai quali corrispondono schemi analitici. Due copioni ci interessano: Sacconi e Tremonti. Due copioni che hanno fatto il Pdl e costituito la cifra politico-culturale specifica di una storia. Se è vero, com'è vero, che il berlusconismo sia, di fatto, un "racconto totale" del nostro popolo, dell'Italia come nazione e cultura antropologica, come ha acutamente scritto Marco Revelli - enfatizzando un tratto a suo dire critico, nei fatti sinteticamente iper-politico e, insieme, post-ideologico -, è altresì vero che tale racconto lasci aperto il vaglio storico ad una galleria di interpreti che ne fanno un copione specifico, efficace, originale. L'ex ministro del lavoro, Maurizio Sacconi, ha rilasciato un'intervista al "Corriere della Sera", allo scadere dell'anno che è ormai alle nostre spalle, in cui afferma che la manovra del direttorio montian-bancario è oggettivamente "depressiva", dunque non solamente recessiva, e che, di conseguenza, siamo a rischio "disgregazione sociale". La politica deve parlare la lingua della verità e le parole devono essere come pietre, e queste lo sono. Negli anni '70 del secolo scorso, il ceto medio era alleato dello stato, contro il terrorismo. L'asse politico unitario della solidarietà nazionale costituiva anche l'asset sociale e socioeconomico stabile e forte di questo Paese. Il fattore politico era coesivo e il collante socioeconomico c'era tutto. Oggi, a causa non soltanto della crisi finanziaria, ma grazie anche allo sbilanciamento nichilistico puntato in direzione della disgregazione degli assetti antropologici (una bella ripassatina non ideologica al Pasolini degli "Scritti corsari" non farebbe male), l'Italia è una nazione senza identità - si badi: ho scritto "nazione", non "paese" o "sistema-paese" - ed una comunità quasi priva di radicamenti certi e centrati sulla tradizione e sulla cultura di un popolo. L'Italia è stata assaltata senza pietà alcuna, da parte a parte, da ondate eversivo-nichilistiche e, a partire dalla fine degli anni '60 del secolo scorso, fatica a ritrovare la strada identitaria. Le ideologie sono servite a cementare eserciti in lotta, ma non hanno fatto molto per salvare la nazione - ancora una volta: nazione - dalla disgregazione. Dunque: siamo già nella disgregazione compiuta. La crisi è il volano di un passaggio di lungo periodo che, oggi, assomma molti altri fattori - il ceto medio a gambe all'aria, il più evidente - e, dunque, sembra essere il colpo decisivo. Ma è stato decisivo tutto il processo e, oggi, siamo al compimento di questo processo: quando una nazione è così sfaldata, è ovviamente impreparata a reggere urti di particolare entità. Il nichilismo è una realtà vagliata attentamente da Sacconi, che si affatica da tempo sulla necessità di sprigionare le forze vitali del Paese, perché senza forza vitale, ideali, interessi condivisi, non si va da nessuna parte. O meglio: si va in vacca. Altro che bene comune. Il bene comune non è la "volontà generale" di Rousseau, non è un pendant neototalitario ad uso e consumo dei tecnicastri sciatti e grigi, per far passare il copione - ecco l'altro copione diabolico - della violenza sul popolo come unica strada per uscire dall'angolo. Come a dire: ammazzo il cavallo, ma pretendo che corra. Il bene comune va studiato attentamente e citato a proposito. Ritorneremo su questa categoria declcinata sempre in ambiti locali e specifici, non in chiave generalista ed astrattamente universalistica, a sostegno di Piani quinquennali della miseria. Questa è la "miseria della filosofia", derivante dalla "filosofia della miseria"...in vista del bel sol dell'avvenire tecno-proceduralista: il paradiso degli imbecilli. Fatto sta che, con questo marchingegno demonico, il Pdl si sta facendo la corda per un'impicaggione coi fiocchi. Un suicidio niente male, non c'è neanche bisogno del boia. La Maglie e Bechis l'hanno scritto su "Libero": è la pura verità. Un anno di questa violenza sul popolo, senza che il partito del grande sogno nazionale - non nazionalistico - e del racconto totale del berlusconismo come macro-sintesi del liberalismo sociale, del cattolicesimo sturziano e del socialismo craxiano, e la partita è chiusa. Dopo, per riaprire la strada della politica, sarà assai arduo, e la memoria in un tempo di nichilisti compiuti non favorisce affatto la ripresa. In realtà, l'Italia non solo non se la passava così male - già, è proprio così, dati oggettivamente letti alla mano -, ma poteva ancora correre un bel pò, solo che, con l'opposizione sfascista che abbiamo e i sindacati corporativi parafascisti-comunisti che ci ritroviamo, con tutti gli addentellati in ambiti anche istituzionalmente elevati, ad esempio, la Camera, la corsa è finita presto. Gli errori del Pdl sono a noi ben noti, ma la deriva tecno-nichilista conduce l'Italia alla fine di un processo di tentata ricostruzione della politica, dopo il golpe bianco del '92-'93. Sono gli stessi di allora, amici dei protagonisti del massacro di allora, oggi in veste di "esperti" e chirurghi con la sala operatoria sempre aperta. Gli anti-italiani, che parlano inglese anche in veste di capo del direttorio e con un decreto diabolicamente chiamato "salva-Italia": il mondo finirà con lo sbadiglio degli astanti, che non manca di cinismo, a dire il vero, visto che finora, per i debiti, si sono ammazzate 13 persone. Ecco allora che Tremonti, nell'intervista del 4 gennaio, sempre sul "Corriere della Sera", rimanda all'ulteriore "perdita di sovranità" dell'Italia a fronte di un prestito di 300-400 miliardi del Fmi, che non basterebbe a risanare, ma a depotenziare il Politico nel senso schmittiano del termine - cioè la forza sovrana di decidere sullo stato di eccezione -, questo sì, basterebbe e avanzerebbe. La sovranità nazionale: un orpello, secondo gli ideologi nichilisti della Tèchne al potere, primo fra tutti, Cacciari. Ma, nei copioni descritti, con Sacconi e Tremonti, che guardano al Politico come fattore generativo e di ripresa della forza vitale di una nazione, tutt'altro che orpello, dimensione decisiva. La scelta è di fronte a noi: o il pre-dominio senza sovranità della tecno-burocrazia nichilista si traduce in chance di ri-definizione della politica come arte della decisione e "scienza" del Progetto, oppure addio alla nazione-Italia e vittoria del nichilismo desertificante. Come molti segnali, purtroppo, fanno pensare. Un anno ancora di questa sbobba mortifera, ed è finito tutto. A meno che...
Raffaele Iannuzzi

martedì 3 gennaio 2012

PUBBLICATI TRE NUOVI ARTICOLI


CONTRO LA MISTICA GOVERNATIVA DEL SACRIFICIO


di Gianteo Bordero

E’ dalla vita concreta del popolo, dalla sua storia, dalle sue radici, dalla sua creatività, dall’intrapresa di uomini liberi che bisognerebbe ripartire, non da idoli di cartapesta a cui sacrificare, di manovra in manovra, la carne e il sangue di una nazione.

L’unica mistica del sacrificio che ci piace è quella cristiana, altrimenti detta “ascesi”: qui l’uomo si abbassa per essere innalzato e il frutto della rinuncia e della mortificazione è, secondo la legge del paradosso di cui è permeato tutto il Vangelo, la gioia. Morire a se stessi per vivere in pienezza. All’opposto, riteniamo nefasta la nuova mistica del sacrificio che ci viene proposta da qualche tempo a questa parte dai tecno-governanti e dalle alte cariche dello Stato, con un surplus di moralismo che rende il tutto venefico per noi poveri italiani. Quest’ultima è semplicemente una mistica depressiva, che toglie e non dà, che abbassa e non rialza.

Vale infatti per la vita come per la politica: un sacrificio è assurdo se non c’è un perché, come diceva Pavese. E qui, gratta gratta, il perché non c’è. Certo, c’è “il debito pubblico da sanare”, c’è “lo spread”, c’è “il rischio default”, c’è “la fase due”, c’è il “cresci-Italia” eccetera eccetera, come da impeccabile lezioncina di fine anno del professor Monti. Ma basta tutto questo a giustificare i sacrifici di un popolo intero? Ovvio che no. Può dirlo con tutta l’enfasi e la finezza retorica che vuole il capo dello Stato, tentando a reti unificate di convincerci del contrario, ma non basta.

Lo insegna la storia: i popoli rinascono, rivivono, si rimettono in marcia soltanto quando a muoverli c’è un ideale degno di tal nome, quando uomini che vivono sulla stessa terra, che parlano la stessa lingua, che condividono le stesse radici hanno davanti a sé una missione di cui essere protagonisti e non sudditi, eroi e non spettatori paganti, guerrieri e non ostaggi. Quando c’è da sguainare la spada per difendere se stessi, la propria famiglia e i propri beni dall’assalto del nemico.

Bene, si dirà, è proprio il caso nostro: oggi l’aggressore ha le sembianze della speculazione e dello spread, e i cittadini devono fare i sacrifici per sconfiggerlo. Peccato che questa sia solo la vulgata propagandata senza posa da giornali, tv e menestrelli di regime. Provate a chiedere in giro, per le strade e nei bar, chi gli italiani percepiscono come nemico in questo triste inizio d’anno: avrete una risposta differente. Il nemico sono le imposte in più, la patrimoniale sulla prima casa, il blocco dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione, le nuove accise sulla benzina, i rincari delle bollette e via tartassando. Altro che protagonisti, eroi e guerrieri! Qui ci sentiamo tutti sudditi, spettatori paganti e ostaggi. Non di un invasore che viene dall’esterno, ma dello stesso Stato italiano e dei suoi demiurghi, che – scusate la brutalità – fanno i froci col culo degli altri, cioè il nostro, per onorare non il debito pubblico, ma l’astratto dio del “rigore” e della “austerità”. Quel dio nel cui nome campano eurocrati e grand commis di Bruxelles e Francoforte, gente a cui viene l’orticaria al solo sentir pronunciare le parole “popolo” e, ancor di più, “sovranità popolare”.

Insomma, la verità taciuta è che non si torna a crescere, non si può tornare a fiorire sulla base di un’astrazione. Perché, per dirla con Mounier, “è dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente di un'opera che cresce, di tappe che si susseguono, aspettate con calma, con sicurezza”. E’ dal basso, dal profondo, cioè dalla vita concreta del popolo, dalla sua storia, dalle sue radici, dalla sua creatività, dall’intrapresa di uomini liberi che bisognerebbe ripartire, non da idoli di cartapesta a cui sacrificare invano, di manovra in manovra, la carne e il sangue di una nazione.    

lunedì 2 gennaio 2012

L'INELUDIBILE NECESSITÀ DI INVESTIRE IN CONFLITTO

di Francesco Natale

Laddove i "professionisti della politica" vincevano i referendum da soli, gli "homines novi" vengono invece spediti a spasso da algidi professori...

In politica, così come nel vissuto quotidiano, è impossibile pensare di piacere a tutti. Sempre e comunque. Il conflitto e la capacità di gestione del medesimo stanno alla base di qualunque azione realmente incidente, realmente efficace, realmente migliorativa rispetto allo status quo. La capacità di mediare e di gestire trattative complesse e all'apparenza insolubili, poiché disomogenee, è solo una parte dell'azione politica. Parte che, da sola, produce stagnazione e sterilità. Immobilismo, in una parola. L'ossessione patologica del voler individuare ad ogni costo soluzioni che non facessero male a nessuno, rinunciando così tout court all'investimento proattivo nel conflitto, è stato il grande male che ha contaminato la politica italiana negli ultimi vent'anni. Ne è rimasta vittima la sinistra, incapace a tutt'oggi di redigere un programma politico organico e credibile che non sia assoggettato agli infiniti diktat del sindacato, di Confindustria, della lobby bancaria, della lobby LGBT (lesbo-gay-bisex-transgender), degli innumerevoli gruppi di pressione i cui interessi particolari satellizzano il Partito Democratico molto più di quanto facessero col PCI. Ma per ragioni diverse né è rimasto vittima soprattutto il centrodestra.

Partiamo da un dato storico, che non vuole in nessun modo suscitare nostalgici piagnistei né melensaggini passatiste: nel 1985 Bettino Craxi, attraverso il cosiddetto "decreto di San Valentino", tagliò di quattro punti la Scala Mobile, ovvero quel meccanismo che comportava l'adeguamento automatico delle retribuzioni al tasso di inflazione. Craxi disintegrò il tabù del patto di unità sindacale, poiché mentre CISL e UIL accettarono la trattativa, la CGIL abbandonò sdegnata il tavolo di concertazione, per poi correre a mendicare l'aiuto del PCI, che allestì un'offensiva mortale contro il presidente del Consiglio e il suo decreto. Craxi pose la fiducia sul provvedimento e la ottenne, nonostante il selvaggio ostruzionismo parlamentare del Partito Comunista. Ma CGIL e PCI non considerarono la partita chiusa: raccolsero infatti le firme necessarie per il referendum abrogativo e scesero in trincea con la sicurezza assoluta di vincere a mani basse. A quel punto tutto il Pentapartito fece marcia indietro: i soggetti più prudenti ritenevano sconsigliabile premere fino in fondo l'acceleratore, quelli più opportunisti considerarono Craxi un povero pazzo, partendo dal presupposto che un PSI che arrivava attorno all'8,5% non avrebbe mai potuto vincere contro il titano comunista. Non solo: la pressoché certa sconfitta al referendum avrebbe decretato la fine del governo Craxi ed una conseguente riconfigurazione dei rapporti di forza. Craxi non ascoltò i prudenti pontieri, le suadenti "colombe" e i mercenari d'accatto, e fece di testa sua: si impegnò in prima persona nella folgorante campagna referendaria della primavera del 1985 e vinse da solo un referendum epocale. Scelse coscientemente di investire in conflitto e così sconfisse, da solo, certamente il PCI e la CGIL, usciti esulcerati dalla debacle, ma anche la prudente DC e le altre forze liberali che, pasciute di cerchiobottismo, ritenevano irragionevolmente temeraria e pericolosa la scelta del presidente del Consiglio.

Attenzione: quella che certamente fu una vittoria personale del "cinghiale", come spregiativamente lo chiamavano i detrattori, contribuì a produrre effetti assolutamente salutari per l'Italia tutta, come il decremento dell'inflazione dal 12,30% al 5,20%, l'aumento dei livelli salariali fino a ben 2 punti sopra il tasso dell'inflazione, sviluppo economico del paese secondo solo a quello del Giappone e superamento dell'Inghilterra, alla quale strappammo il quinto posto tra i paesi industrializzati del mondo sia per reddito nazionale che pro-capite. Accidenti! Vuoi vedere che investire in conflitto paga per tutti?

Uno scenario inimmaginabile se rapportato all'esperienza politica dell'ultimo ventennio: nessun governo, di sinistra meno che meno ma neppure di destra, sarebbe stato in grado di prodursi in un "exploit flamboyant" di questo tipo. Perché? A questo punto, vista la piega tutt'altro che allegra che stanno prendendo le cose, forse una risposta ce la meriteremmo pure. Proverò qui sinteticamente a fornirne una, personale e quindi opinabile quanto volete.

In primo luogo: i costrutti realizzati in provetta dentro ad un laboratorio non funzionano nel contesto reale. Partiti di plastica confezionati come un abito sartoriale sulla figura di un leader, per quanto carismatico egli possa essere, sono destinati al fallimento. Al fallimento più paradossale che si possa concepire: quello per eccesso di vittorie. L'abolizione per statuto di ogni momento di confronto serio, di dibattito interno, di contestazione più o meno accesa, di discussione sia a livello centrale che, soprattutto, periferico comporta un'unica conseguenza: atrofizzare progressivamente i muscoli del conflitto, rendendo pertanto incapace una classe dirigente di reagire efficacemente all'ostruzionismo, all'interdizione, ai bizantinismi che dai tempi di Atene fanno parte del DNA della dialettica politica.

Allo stesso modo l'aver confezionato volutamente un parlamento su misura, in stragrande maggioranza costituito da adoranti "yes men" pronti in apparenza a difendere anche l'indifendibile, presuntivamente vincolati da un perenne debito di gratitudine nei confronti di colui che li ha omaggiati graziosamente di un seggio e conseguentemente privi di qualsivoglia personalità e spessore politico reale, risulta come minimo controproducente: al primo volger di marea, infatti, chi è stato educato e cresciuto all'opportunismo si comporta di conseguenza. Come stupirsi che il serpente morda e lo scorpione punga? Alla Natura, che come si dovrebbe sapere ha la testa dura, non si può indefinitamente andare contro. Un partito, infatti, anche quello più asfittico, ingessato e plastic oso, vive di una propria vita per quanto sotterranea e squallida essa possa essere, e i cesaricidi non rappresentano un eventuale incidente di percorso: esistono sempre e comunque e non sono eliminabili per decreto. Tanto vale pragmaticamente farci i conti e correre per tempo ai ripari, perché la supposta "gratitudine" ha sempre una data di scadenza.

A questo deve aggiungersi una forzatura linguistica (e quindi politica) che, se ha vellicato certo popolar sentire sul breve periodo, ha generato in realtà i presupposti perché proliferasse quel fenomeno devastante che chiamiamo eufemisticamente "antipolitica". L'insistenza costante nel sostituire spregiativamente l'espressione "parlamentarismo" con "assemblearismo", assimilando così nell'immaginario collettivo Montecitorio a una riunione condominiale a Scampia, ha prodotto risultati deleteri.

Allo stesso modo si è rivelata esiziale l'invettiva diuturna contro "i professionisti della politica", visti come il nemico oggettivo da abbattere: una viareggiata infantile e parecchio ingenua, poiché laddove i "professionisti della politica" vincevano i referendum da soli, gli "homines novi" vengono invece spediti a spasso da algidi professori... L'idea stessa, inoltre, che il parlamento fosse una colossale palla al piede per l'esecutivo rispecchia un’attitudine autoreferenziale che in politica paga quanto il due di picche: se in casa mia posso pure giocare a fare il demiurgo annichilendo per regio decreto ogni forma di fattiva collaborazione così come di legittima contestazione, di sinergia, insomma, tra i poteri dello Stato, per forza di cose quando mi recherò in "casa d'altri", si tratti di un consesso internazionale così come di un tavolo di concertazione nazionale, non saprò che pesci pigliare di fronte a soggetti a me comunque ostili, che non giocano secondo regole da me predeterminate. Soprattutto se, come scrivevo all'inizio, sono ossessionato dall'idea fissa di piacere a tutti. Sempre e comunque. Al punto tale che mi risulti inconcepibile, ai limiti della blasfemia, il fatto che io possa stare allegramente sui coglioni a mezzo mondo...