venerdì 30 dicembre 2011

DESIDERIO? NO, TU NO!

di Raffaele Iannuzzi

In fondo alla strada del nostro presente, rigonfio del grottesco di un totalitarismo "subdolo" e straccione, c'è il figlio del Puer, del Fanciullino che è in noi: il De-siderio. Guardare le stelle, senza tristezza, con il rigore della gioia gratuita, ecco la salvezza.


L'hanno definito, come sempre, scontatamente, “siparietto”. Monti che ha in mano la mappa delle analisi di chissà quali cortocircuiti sinuosi delle curve della Sig.ra Spread ("in Monti", ormai è una coppia, anzi una famiglia, oppure, se piace a qualche laicista stagionato, una coppia di fatto), ah sì, spread Bund-Btp, non si accorge di avere alle spalle, nel contempo, la cartografia dello scempio algoritmico, per cui, davanti ai giornalisti italioti (perché estatici di fronte al Nulla) ed europei, americani, che so io, sminestra la sua sbobba, e quando gli dicono: "Oh, guarda che hai tutto il pacco alle spalle!", si gira, con il suo caldo trambustio delle vene, ed esclama un suono gutturale o biascica qualche parola..."Guardate che lì ci sono delle linee di tendenza che qui non vedete" (caspita, brilla il Mario...). Ecco, il nostro "da-a": da Berlusconi, militante e amante della vita fino al falò delle vanità, a Monti, ingegnere del Nulla, distratto e impacciato perfino di fronte al disarmo generale: scena vuota, non si sa a chi stia parlando, e, infine, si ritrova la Mappa delle linee a zig-zag sulla prateria degli speculatori alle spalle: il grottesco cala, senza eccesso di zelo, cala perché è tutto finto e spiaccicato a terra.



E poi c'è la Vita. Altrove. La Vita, in questi casi, è sempre altrove. C'è, quindi, il Desiderio. Il fattore inedito, annotava Jacques Lacan, perfino spregiudicato, che spalanca l'esistenza verso il punto originario che strappa il velo di Maya delle consuetudini e dei grotteschi buro-comici, per saggiare fino in fondo lo spessore dell'esperienza. Dei singoli e di un popolo. Il nostro è un popolo e su di esso cala la mannaia della tecno-burocrazia che si fonda su un pre-supposto/pre-giudizio: è "normale" che voi, cari cittadini italiani, vi addossiate il carico di tutto il crack della Nazione, perché così ci dice l'Europa, lo Spirito assoluto del mondo, lo Spirito a cavallo di hegeliana memoria, ieri Napoleone, oggi il direttorio franco-tedesco (altra mirabile macchina produttrice di teatrini pari a quelli montiani), ergo: la "religione" del sacrificio è scritta, zitti e mosca, testa bassa, palla lunga e pedalare. Il neototalitarismo è soffice, molle, ma non meno bastardo e invasivo.

Leggete cosa ne diceva quel grand'uomo di Giovanni Paolo II, all'indomani del crollo del Muro di Berlino, nell'enciclica "Centesimus annus" (1990): "Il totalitarismo nasce dalla negazione della verità in senso oggettivo: se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l'uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini. Il loro interesse di classe, di gruppo, di Nazione li oppone inevitabilmente gli uni agli altri. Se non si riconosce la verità trascendente, allora trionfa la forza del potere, e ciascuno tende a utilizzare fino in fondo i mezzi di cui dispone per imporre il proprio interesse o la propria opinione, senza riguardo ai diritti dell'altro. Allora l'uomo viene rispettato solo nella misura in cui è possibile strumentalizzarlo per un'affermazione egoistica. La radice del moderno totalitarismo, dunque, è da individuare nella negazione della trascendente dignità della persona umana, immagine visibile del Dio invisibile e, proprio per questo, per sua natura stessa, soggetto di diritti che nessuno può violare: né l'individuo, né il gruppo, né la classe, né la Nazione o lo Stato. Non può farlo nemmeno la maggioranza di un corpo sociale, ponendosi contro la minoranza, emarginandola, opprimendola, sfruttandola o tentando di annientarla” (n.44). E ancora: "A questo proposito, bisogna osservare che, se non esiste nessuna verità ultima la quale guida ed orienta l'azione politica, allora le idee e le convinzioni possono esser facilmente strumentalizzate per fini di potere. Una democrazia senza valori si converte facilmente in un totalitarismo aperto oppure subdolo, come dimostra la storia" (n.46).

E' il nostro presente. Il presente come storia. In fondo alla strada di questo presente rigonfio del grottesco di un totalitarismo "subdolo" e straccione, c'è, però, il figlio del Puer, del Fanciullino che è in noi: il De-siderio. Guardare le stelle, senza tristezza, con il rigore della gioia gratuita, ecco la salvezza. Piedi ben piantati per terra e occhi a rimirar il cielo della verità. Tutto qua.

Ancora il nostro Giorgio Gaber, ad affratellare congiunzioni laiche di varia origine: 

"Il desiderio
è la cosa più importante
che nasce misteriosamente
è il vago crescere di un turbamento
che viene dall'istinto
è il primo impulso per conoscere e capire
è la radice di una pianta delicata
che se sai coltivare
ti tiene in vita".

("La mia generazione ha perso", 2001)

Andate a spiegarlo a Monti, grafici alla mano, se ce la fate. Buon anno.


mercoledì 28 dicembre 2011

DUE NUOVI ARTICOLI SUL MASSACRO DEI CRISTIANI IN NIGERIA


L’ISLAM E LA LIBERTÀ NEGATA

di Gianteo Bordero

Se non si riconosce apertis verbis che il discrimine tra la civiltà cristiana e la civiltà islamica non sta nell’esercizio dei diritti di libertà, ma nella libertà stessa, ogni richiamo alla mancanza di reciprocità non può e non potrà sortire alcun effetto.

L’ennesimo massacro di cristiani in Nigeria, con cui alcuni zelanti seguaci di Allah hanno inteso “festeggiare” a modo loro il Natale di Gesù, pone in evidenza un gigantesco problema che in pochi, anche tra coloro che per cultura e storia personale dovrebbero farlo, hanno il coraggio di chiamare per nome: l’islam e la libertà (e in particolare la libertà religiosa) sono due rette parallele che non s’incontrano mai. A differenza del cristianesimo, che esalta la libertà della persona all’ennesima potenza, al punto di prevedere la possibilità di un rifiuto della grazia divina da parte dell’uomo senza che ciò comporti il venir meno dell’amore di Dio per la sua creatura, l’islam, come dice il nome stesso, è pura sottomissione alla volontà di Allah: chi non si sottomette diviene per ciò stesso un essere con dignità minore se non nulla, un infedele da convertire con le buone o con le cattive, e infine, nel peggiore dei casi, carne da macello da sacrificare sull’altare dell’Onnivolente.

La libertà del cristiano si fonda sul dinamismo trinitario e, in ultima istanza, sull’evento dell’incarnazione del Figlio in Gesù Cristo, sull’ingresso carnale di Dio nella storia degli uomini: l’Altissimo si abbassa fino ad assumere la condizione umana: in una mangiatoia, nel Getsemani, sul legno della croce. “Dio si è fatto uomo – dice sant’Agostino – affinché l’uomo diventasse Dio”, ed in ciò è implicata pienamente la libertà della persona, che può scegliere di aderire o meno all’annuncio di salvezza portato dal Nazareno. Può, come il giovane ricco di cui parlano i Vangeli, voltare le spalle alla Verità fatta carne. E la conseguenza di tale rifiuto non è l’essere additato come un infedele, ma la tristezza esistenziale. Nell’islam, invece, Dio non si china sugli uomini facendosi uomo, non è una presenza tangibile nella storia, ma rimane pura volontà che dall’alto chiede, come detto, sottomissione e non amore. E la sottomissione cancella la libertà, mentre l’amore la esalta.

Se non si comprende – o se si finge di non comprendere – tutto ciò, porre la questione del rapporto tra cristiani e musulmani soltanto in termini di mancata reciprocità nell’esercizio del diritto alla libertà religiosa diventa un mero flatus vocis da anime belle, da consumati burocrati onusiani capaci di produrre un numero di bei documenti inversamente proporzionale ai risultati concreti ottenuti. Se non si dice, se non si riconosce apertis verbis che il discrimine tra la civiltà cristiana (la cristianità e l’Occidente che da essa ha preso forma) e la civiltà islamica non sta nell’esercizio di un diritto di libertà, ma nella libertà stessa (e quindi nell’idea stessa di persona, essendo la libertà l’essenza dell’essere umano), ogni richiamo alla reciprocità non può, non potrà sortire alcun effetto. Tanto più se, accanto a questo richiamo, si continuerà a cianciare a vuoto di “primavera araba” senza vedere che l’unico effetto che tale “primavera” ha prodotto è stato, fino ad oggi, quello di abbattere regimi certamente autoritari ma altrettanto certamente meglio disposti nei confronti dei cristiani rispetto a quelli che andranno ad instaurare i Fratelli Musulmani in Tunisia ed Egitto e i fondamentalisti di Bengasi in Libia. La primavera araba è l’inverno della libertà dei cristiani in quei paesi. E non è un caso se Ben Ali, Hosni Mubarak e Muammar Gheddafi fossero ritenuti “infedeli” da molti dei loro stessi correligionari.

Bisogna dunque aprire gli occhi, rimuovendo quella patina di ipocrisia che impedisce anche a noi occidentali di vedere le differenze tra religioni e tra civiltà, di capire cioè dove sta la vera differenza cristiana e occidentale rispetto all’islam. Il politicamente corretto ci additerà come intolleranti, razzisti e infine islamofobi, come accadde a Benedetto XVI dopo la sua memorabile lectio magistralis di Ratisbona. Ma ne avremo guadagnato in verità e in coscienza di noi stessi. Il che non è poco.   

L'INDIFFERENZA AL MARTIRIO


di Raffaele Iannuzzi

Gli islamici ammazzano brutalmente, con un’ingordigia ancestrale, degna della profezia di violenza e conquista che hanno nel sangue, ma prima di loro c’è la nostra società nichilista perfettamente organizzata sul fondamento in-fondato del tutto lecito.

In un aureo libretto del 1966 ("Cordula, ovverosia il caso serio") Hans Urs von Balthasar, un maestro della teologia cattolica, scrisse che l’identità del cristiano consiste nella sua alterità rispetto al mondo, e che questa alterità si configura come martirio. E’ il martirio il profilo oggettivo e storico dell’identità del cristiano come singolo credente e uomo che vive della sua fede, come afferma san Paolo. Martirio, parola per molti inquietante, deriva dal greco “martirìa” e vuol dire testimonianza. Ne consegue, quindi, che per essere testimoni credibili occorre metterci il corpo fino in fondo, essere disposti a perdere tutto, fino all’effusione del sangue. Tertulliano fu secco e drasticamente chiaro: il sangue dei martiri è il seme della Chiesa. Così è, da sempre. "Come nell'antichità anche oggi la sincera adesione al Vangelo – ha detto Benedetto XVI nel corso dell’Angelus di Santo Stefano - può richiedere il sacrificio della vita e molti cristiani in varie parti del mondo sono esposti a persecuzione e talvolta al martirio". 

In Nigeria, nel giorno di Natale, è stato ucciso un centinaio di persone, e la mano è sempre quella del fondamentalismo islamico, latore dell’ideologia della sharia come unico fondamento della società. Esiste da tempo il franchising scellerato della violenza terroristica islamica, da quando Al Qaeda ha decentrato la sua leva armata, formando e facendo formare sui singoli territori i nuovi assassini dell’islam. Questo in Nigeria è l’ultimo tragico risultato di una scia di sangue che ha strategie, contorni e progettualità ben precise. La Nigeria ha un presidente cattolico, Goodluck Ebele Jonathan, ed è un paese tollerante, con plurali forme e germi di civiltà religiosa, più ispirato al pensiero del profeta della libertà nera ed intellettuale pubblico, il poeta cristiano Léopold Sédar Senghor, che alla violenza ideologica diffusa tra un massacro e l’altro dai seguaci del profeta Maometto. Tutti contro la violenza, nel mondo civile. Tutti, nessuno escluso. Perché non costa niente. L’aveva appunto scritto con lungimiranza profetica Balthasar: una volta attaccati, tutti saranno dalla nostra parte, soprattutto i nostri carnefici. 

Ma, allora, i carnefici dei cristiani nigeriani oggi, e di altre centinaia di migliaia di cristiani in ogni angolo della terra, non sono gli islamici? Certo, loro ammazzano brutalmente, con un’ingordigia ancestrale, degna della profezia di violenza e conquista che hanno nel sangue, ma prima di loro c’è la nostra società nichilista perfettamente organizzata sul fondamento in-fondato del tutto lecito, madama la marchesa. Anche quando, come oggi, non va tutto bene, madama la marchesa, perché c’è la crisi, però è tutto lecito – questo sì – madama la marchesa. Anche la crisi è frutto del massacro della verità e, dunque, della vita nei suoi fondamenti, ma è meglio e più notarilmente accettabile che la questione sia basata sui grandi numeri dei massacri dei cristiani, salvo poi incenerire la verità sulla scorta della sfibrata pietà, del pietismo, e – passaggio finale – custodire il teatro del nulla sulle cui tavole recitano i soliti personaggi in cerca d’autore, così, come se niente fosse. 

L’indifferenza nei confronti del sangue dei cristiani è algoritmica, è un’equazione perfetta, uno straordinariamente ben congegnato “se p, allora q”: se Dio non esiste, tutto è permesso. I cristiani muoiono ogni giorno anche perché si suicidano come testimoni di Cristo, preferendo aderire al grande modello dell’Organizzazione sociale della vita, parlare della Grande Crisi come se non sapessero da dove derivi, inserirsi nei gangli dei nuovi Direttòri para-napoleonici in cerca della “salvezza” atea dell’Italia, che non sfiora neanche di sfuggita la salvezza legata alla nascita del Dio Bambino nella mangiatoia di Betlemme. Ecco il punto: l’indifferenza è in-differenza, ovvero niente fa più la differenza. Dunque: trangugiamo la morte perché questa è una società fondata sulla morte. Perché se sei cattolico, lo dichiari, vivi la tua fede e pensi e agisci secondo essa, sei fregato, punto. Il martirio è “bianco”, in questi casi, ma è l’incunabolo della Nigeria: tutto si tiene. E nessuno ritiene che ciò sia scandalo, pietra d’inciampo, necessario infuso della verità da trangugiare, ora, per rinascere. Ma si continua come gli “uomini impagliati” di Eliot, “che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia”. E’ lo scenario di oggi; ancora Eliot: “Figura senza forma, ombra senza colore; forza paralizzata, gesto privo di moto”. Tutto si tiene ancora una volta e conduce verso il nulla. 

L’apocalisse è soltanto quello che esprime, vuol dire “rivelazione”, e rivela quel che è già oggi condensato nelle agenzie di prassi sul massacro nigeriano, perché questi tabulati del nulla sono stampati da “uomini impagliati”, dunque cosa mai possono produrre? Non c’è più orrore né reazione, di fronte al macello dei fratelli uomini, perché non ci sono più fratelli in giro, ma automi che schivano i colpi della vita, cadaveri ambulanti che glissano le pietre dell’esistenza, fingendo, così, di poter avere la loro chance di sopravvivenza. Certo, per sopravvivere così ci vuol poco. Parigi val bene una Messa, ma un aborto di respiro non ha bisogno del sacro ad invischiarsi, potente, dappertutto, in ogni piega del giorno. Ha solo bisogno di informazioni, di sapere quanto non lo colpirà: cos’è successo, oggi? Ah sì, cento morti in Nigeria…i soliti fondamentalisti islamici… al solito… Sempre Eliot: ”E’ questo il modo in cui il mondo finisce, non già con uno schianto ma con un piagnisteo”.

(pubblicato su "Il Tempo" del 27 dicembre 2011)

sabato 24 dicembre 2011

DI "TECNICA" DELL'IMMATERIALE SI VIVE

di Raffaele Iannuzzi

I tecnici ci piacciono. Non i "tecnici" con le virgolette, non i "tecnici" italioti. Ma gli uomini che fanno della tèchne divina il germe dell'intelligenza, che praticano il lògos divino-umano che fonda la ragion politica.

Errore madornale: i tecnici ci piacciono. Sì, ci piacciono. Sono belli, bravi, buoni e perfino talentuosi, anzi divinamente talentuosi. No, non parliamo dei "tecnici" con le virgolette, come vedete. Quelli sono "tecnici" italioti e, per capire cosa diavolo significhi questo strano aggettivo qualificativo un po' bislacco, potete prendere in mano il "Codice della vita italiana" di Prezzolini: tutto già scritto nel 1921. Ma non di questo si vuole qui trattare. Riparliamo dei tecnici. Degli uomini che fanno della tèchne divina il germe dell'intelligenza. Erano tecnici senza virgolette i Padri della Chiesa. Erano tecnici i Santi. Uomini veri, realizzati. Erano tecnici i politici cattolici e laici - nel senso di agnostici veri - che sapevano, però, leggere un documento di finanza pubblica e un resoconto finale del disavanzo pubblico, insomma, che "sapevano" le "cose". I "tecnici" italioti dicevano: "Dobbiamo fare le cose necessarie". Dopodiché, oggi siamo al sabba delle inconcludenze strutturali: dal fisco-vampiro (e su ciò, sia chiamato in causa il geniale Bonanni: lo zio avrebbe fatto meglio; del resto, secondo Longanesi, ci salveranno le vecchie zie, bastano anche le femmine, dunque...) al welfare-fai-da-te, con pensioni al tritacarne e, triplo salto carpiato, maxi-concorso del Miur per centinaia di migliaia di assunzioni nella scuola, con quasi zero tagli e orientamento strutturale da far-cassa senza ragion politica. Non ci siamo. Sì, ma questi sono i "tecnici" italioti.

Noi, invece, vogliamo parlare dei tecnici divini, dei praticanti il lògos divinoumano che fonda la ragion politica. Cominciamo seguendo le sante e sane gerarchie: il Pontefice. Benedetto XVI ha infatti rimesso il dito nella piaga, dopo averlo fatto per un tot di volte, a dire il vero: "Alla fine dell'anno, l'Europa si trova in una crisi economica e finanziaria che, in ultima analisi, si fonda sulla crisi etica che minaccia il Vecchio Continente". Bum, colpito e affondato, come nella battaglia navale, diletto dei nostri giorni da scolaretti tediati dal/la palloso/a insegnante di turno. Così è, se vi pare, affonda il colpo il Papa, seccamente, con la forza del profeta Malachia: devo dire la verità, sempre. Qual è il vero problema? Lo spread? Ma neanche per idea, questa è materia per parrucconi palloccolosi che campano alle spalle di chi fa profitti veri e che fingono di lavorare, pensa un po' (i nuovi guru... o tempora o mores...). Qui siamo al punto-di-svolta: l'Europa è segnata duramente dalla "stanchezza della fede", dal "tedio di essere cristiani", insomma, alla fine, "manca la forza motivante, capace di indurre il singolo e i grandi gruppi sociali a rinunce e sacrifici". Si badi: il Sommo Pontefice è un "singolarista", anche se non si è mai iscritto al club degli individualisti super-garantiti sedicenti "liberisti", con le prebende al posto giusto, targate rigorosamente "made in Europe" (bello il Mercato, sì, bello osservarlo, guadagnarci, annusare il sudore della fronte di chi ci lavora davvero e poi intascare i benefits dell'iper-Leviatano europeo); sì, il Papa parla di me e di te, dei concreti singoli, che smazzano e faticano, non dei corpi associati e dei decreti "salva-Italia" (ahahahah). Perché al cristianesimo il singolo piace assai. Quel Gesù di Nazareth, che il Gaber, singolarista anarchico osò nominare come "il famosissimo Gesù" (definizione di vero credente: è famoso ciò che nessuno può cessare di notare, no?), è (non "era": è presente) un Singolo. Non è come ci vorrebbe Monti: un parco-buoi al pascolo, pronti a cambiare stalla, a seconda dei padroni, con il latte in subaffitto ai nuovi fittavoli. Sono i singoli a doversi salvare nell'anima e nel corpo.

Ecco, i tecnici divini ragionano così: partiamo dalla realtà del singolo e traiamo le conseguenze. Chi pensa così dà fastidio, canta fuori dal coro, già, poi, quando affonda il colpo, allora sì, che sono ictus potenziali, sentite qua: "Valori come la solidarietà, l'impegno per gli altri, la responsabilità per i poveri e i sofferenti sono in gran parte indiscussi - osserva Benedetto XVI -, però la conoscenza e la volontà non vanno necessariamente di pari passo". Ecco, qui siamo al cuore della vera tecnica del pensiero orientato attivamente verso il mondo: la conoscenza e la volontà. Nel cattolicesimo laico e singolarista del Papa, chi conosce vuole fare certe cose a seconda della conoscenza a sua disposizione. Anzi, come già sapeva l'Habermas non ebreo e trombone, come quello di oggi: la conoscenza si muove a seconda dell'interesse che la guida. Conosce chi vuole sapere per poi fare, operare, cambiare. Punto. Si chiama teleologia, ma non mettiamola sul difficile, i singoli appartenenti ad un popolo lo sanno, sanno quel che scrisse a suo tempo Charles Péguy, nostro maestro, cattolico-socialista e socialista-cattolico, tutto in uno (un vero singolo): ogni problema politico è, in realtà, un problema di mistica. Ossia, chi crede che la realtà non sia manipolabile a proprio piacimento e non sia meramente un ammasso di dati da vagliare appunto "tecnicamente" (attenzione, ci sono le virgolette), costui si muove per conoscere, aiutare gli altri a conoscere, co-generare come un popolo. Non c'è il disegno di "salvare l'Italia", ma il desiderio di condividere una vita, di abbracciare insieme la speranza, nel qui e ora. Questa è la mistica che co-genera la politica.

Ecco, allora, che il Papa indica la strada della mistica co-generatrice di politica: non guardare indietro alla distruzione di Sodoma e Gomorra, come fa la moglie di Lot, vedendosi trasformata in una statua di sale. Ma guardare avanti con un carico di domande generative, nuove. Gli uomini che guardano indietro rimangono pietrificati, diventano statue di sale, vuoti, simili agli uomini di paglia di Eliot. Invece, dalla crisi "emergono domande fondamentali". "Dove è la luce che possa illuminare la nostra conoscenza, non soltanto di idee generali, ma di imperativi concreti? Dove è la forza che solleva in alto la nostra volontà?". Disgregato il "consenso morale", le società si avvitano su se stesse, il potere si trasforma in strumento a disposizione dell'arbitrio tecnocratico, i palazzi diventano luoghi di morte. La storia sta recitando a soggetto: la politica è in agonia; la Chiesa versa in una crisi di fede. L'Avvenimento del Dio che nasce in una mangiatoia è il fatto anche politicamente più rilevante di questo tempo e di sempre: la politica è sempre intrisa di mistica. Piaccia o meno. Quando piace, abbiamo i tecnici divini. Quando se ne ha orrore, si siedono sugli scranni le statue di sale, gli uomini modello moglie di Lot, voltati indietro. Sia come sia, per noi vale la verità antica e sempre nuova: "In hoc signo vinces".

giovedì 22 dicembre 2011

SUL PRIMO NUMERO DI "SOVRANITÀ NAZIONALE"

C'ERA UNA VOLTA UN GOVERNO POLITICO...

di Gianteo Bordero

La politica, disse una volta Rino Formica, è “sangue e merda”. Oggi gli chef del pensiero unico montiano ce la vorrebbero servire nel piatto fredda, scipita e ipocalorica. Ma così non è più politica: è una pessima sbobba che non nutre la vita di una nazione.

C’era una volta un governo politico espressione della volontà (e della sovranità) popolare. C’era una volta… e adesso non c’è più. Ora ci sono loro, i cosiddetti “tecnici”, modestamente autoproclamatisi “salvatori dell’Italia” per decreto. Salvatori della patria, perché “la politica non ce la faceva proprio”, “non si è dimostrata all’altezza”, “doveva farsi da parte”, come per giorni e settimane e mesi ci hanno ripetuto senza posa gli opinion makers de noantri, gente invero adusa ad obbedir tacendo e a inchinarsi al padrone di turno piuttosto che a raccontare la realtà per quella che è. E la realtà, appunto, è che un esecutivo (valoroso o bislacco sta a ciascun dirlo) voluto dalla maggioranza degli italiani nel segreto dell’urna è stato spazzato via per essere sostituito da ministri, viceministri e sottosegretari che nessuno, dicasi nessuno, aveva mai votato e, in qualche caso, neppure sentito nominare per caso.

Forse, anzi certamente, siamo affetti dal più becero populismo, e siamo ancora nostalgicamente legati (ahinoi, al cuore non si comanda!) alla vecchia idea su cui si reggono tutte le grandi democrazie parlamentari, in cui il governo è espressione della maggioranza uscita vincitrice dalla competizione elettorale.

Per fortuna, però, a smentire questo nostro populismo ci pensa, come al solito con viva apprensione, il presidente della Repubblica, il quale non si stanca di ripetere che la Costituzione italiana prevede che un esecutivo possa essere nominato dal capo dello Stato senza essere stato votato da nessuno. Ha ragione da vendere, il nostro caro Giorgio: il Sacro Testo quello dice, e quello si fa, anzi va fatto. Al diavolo tutti coloro che cianciano, sulle orme di Costantino Mortati, di “Costituzione materiale”. Al bando chi sostiene che, in seguito alla svolta del ’92-’94, con i referendum elettorali da un lato e con la nascita del bipolarismo dall’altro, ha di fatto visto la luce l’elezione diretta del premier (pardon, del presidente del Consiglio). Meglio poggiarsi sulla cara vecchia Carta, meglio affidarsi all’usato sicuro, riportando in auge la gloriosa prassi dei governi a maggioranza casuale e variabile, fondata su partiti che in campagna elettorale avevano proposto idee e programmi antitetici ma che, richiamati saggiamente dall’alto Colle al senso di responsabilità, disarmano e collaborano insieme al mitico “bene comune della nazione”, mettendo da parte quella brutta cosa che è la dialettica, quel duello tra visioni, proposte e progetti di cui, da che mondo è mondo, si nutrono le democrazie.

Perché - ragionano gli uomini d’illuminato senso istituzionale - se la politica è "scontro perenne", se è "la prosecuzione della guerra con altri mezzi", allora a morte la politica: meglio un governo tecnico “per la pace perpetua”. In primis per la pace dei sensi, anche del palato forse un po’ contadino di noialtri che ancora ci appassioniamo a quella strana ma nobile cosa che la Politica con la P maiuscola è – o dovrebbe essere.

La politica, disse una volta il grande Rino Formica, è “sangue e merda”. Oggi gli chef del pensiero unico montiano ce la vorrebbero servire nel piatto fredda, scipita e ipocalorica. Ma una politica disincarnata, sciolta dalla storia e dalla vita concreta dei popoli, non è più politica: è una pessima sbobba che non nutre, non può nutrire l’intelligenza e i cuori, e che, lungi dal “salvare” una nazione, ne prepara invece la dissoluzione per via depressiva.  

NON CI RESTA CHE SHERWOOD


di Francesco Natale

Abbiamo consentito che i castisti in servizio permanente ci castrassero ideologicamente, degradandoci tutti da "cittadini" a semplice fenomeno sociale, funzionale in primo luogo all'omologazione culturale e politica che la cosiddetta Europa ci impone: omologazione di cui l'attuale esecutivo è solo punta dell'iceberg.

L'Italia è attualmente governata da un reggente, il quale non ha legittimità politica ma numerica, e la riprova di ciò viene quotidianamente ribadita da un presidente della Repubblica che, a suon di excusationes non petitae, si sbraccia per affermare il contrario. Siamo governati da Giovanni senza terra, per capirci. Il quale, come da tradizione scottiana, regge il proprio traballante seggio attraverso il suo personale Sceriffo di Nottingham, al secolo Attilio Befera, presidente di Equitalia nonché direttore dell'Agenzia delle Entrate. Difatti il primo, e finora unico, "merito" del governo Monti è stato quello di trasformare il proprio mastino da riscossione in soggetto politico a tutti gli effetti. Una "holding" che impiega 32.000 dipendenti il cui scopo primario, se non l'unico, consiste nello spremere come limoni i cittadini italiani, e che assomma in sé competenze e prerogative inaudite per uno Stato che voglia definirsi civile, moderno e liberale, cessa di essere una semplice "agenzia" di factoring e diviene, per l'incidenza brutale ed arbitraria che esprime nel vissuto quotidiano del cittadino medio, un soggetto politico tout court. Poco importa se il suo direttivo, il suo amministratore e i 32.000 scherani di cui sopra siano o meno soggetti eletti attivamente: è il risultato economico/sociale (e quindi prettamente politico) che producono che conta.

Una situazione pericolosamente anomala che, avvalendoci del qualunquismo da bar sport, possiamo liquidare dicendo che questo è ciò che accade quando al primato della politica subentra il primato della tecnica, ovvero quando l'apparato politico, che in quanto tale è responsabile di fronte al proprio bacino elettorale, viene degradato a ruolo ancillare rispetto alla tecnocrazia, la quale per contrappunto ha le mani completamente libere e svincolate da ogni principio di responsabilità e trova giustificazione in sé stessa, per il semplice fatto che esiste.

Tutto sostanzialmente vero, ma non basta: è utile cercare di capire come si arriva ad una tale deminutio della nostra sovranità nazionale. La situazione di estrema compressione dei nostri diritti soggettivi cui siamo di fronte non può generarsi autonomamente nel volgere di poche settimane: perché il "seme di Caino" attecchisca e fruttifichi è indispensabile che il terreno destinato alla semina sia dissodato, scassato, arato e fertilizzato con certosina pazienza e diuturna fatica. E nel corso degli ultimi cinque anni la proliferazione di "agricoltori del Male" è stata inarrestabile e costante. L'operazione agricola si è sviluppata su più fronti, ovvero è stata organica e ramificata, fondandosi però su un denominatore comune, su un motore primario che ha trasformato la teoria in realtà: lo snaturamento delle fondamenta stesse su cui si basa la nostra identità nazionale e, come sempre accade di conseguenza, l'acquisizione forzosa di modelli politici, economici, sociali, in una parola culturali, che mai ci sono stati propri e che nulla hanno a che vedere con la nostra storia patria. Su tutti, uno: siamo andati a dormire cattolici e ci siamo risvegliati luterani. Fuor di metafora: abbiamo spedito il cervello all'ammasso dell'europeismo rinnegando le nostre radici.

Due esempi tra i tanti: Karl-Theodor zu Guttenberg e Jaqui Smith. Il primo, ministro della Difesa nel governo Merkel, nonché astro nascente della Cdu, è stato costretto alle dimissioni poiché pare che quindici anni fa avesse copiato parte della sua tesi di ricerca. Uno scandalo oggettivamente inaudito e intollerabile per un paese così moralista da aver legalizzato la prostituzione. La stampa internazionale in generale, e quella italiana nello specifico, non hanno mancato di prodursi in lodi sperticate nei confronti dell'inflessibile cancelliere tedesco che ha esatto le dimissioni dell'indegno ministro. Nessuno, ma proprio nessuno, si è chiesto se egli fosse o meno un buon ministro della Difesa (risposta: sì), se egli fosse o meno un buon politico (sì), se egli fosse o meno una risorsa vincente per il proprio partito (ancora una volta: sì). Partito, la Cdu, che per inciso sta pigliando le nespole ad ogni confronto elettorale da quando la Merkel è a capo dell'esecutivo, pure nei feudi storici.

Netta prevalenza della forma sulla sostanza, quindi: criterio selettivo luterano, in base al quale la "presentabilità" e la reputazione "specchiata", come direbbe la senatrice Finocchiaro, diventano criteri sostitutivi rispetto a carisma, intelligenza, dedizione, passione, capacità. Se ne sussume il seguente principio: puoi essere un emerito imbecille e un potenziale sfascia-Stati (vedi alla voce Zapatero...), ma l'importante è che tu non abbia mai sbirciato dal buco della serratura la Madre Superiora che si spogliava al fine di coglierne fugace vision delle pudenda, ed ogni deficit intellettuale ti sarà perdonato.

Jaqui Smith: ancora peggio, se possibile. Nominata ministro degli Interni da Gordon Brown nel 2007, è stata costretta a dimettersi nel 2009. La motivazione dietro alle imposte dimissioni ha del surreale: Richard Timney, marito della signora Smith, avrebbe utilizzato di nascosto una carta di credito governativa di proprietà del ministero per pagarsi due film a luci rosse sulla pay-Tv. Scandalo a tutta pagina e morte civile per decreto giornalistico della Smith, costretta a pubbliche scuse e congedata con ignominia. La cosa peggiore in assoluto, una volta di più, non inerisce alla sostanza, bensì alla forma: le dimissioni a causa di interposta persona non sono state determinate dal piano qualitativo, ovvero dal fatto che il marito della Smith fosse un pornografo (robetta che comunque inerisce alla privacy della persona singola) ma dal fatto che la pruderie (perché d'altro non si tratta) del signor Timney abbia configurato l'unico comportamento che la severa società anglicana considera come ineluttabilmente empio, ovvero l'utilizzo improprio di denaro pubblico. Questo in un paese nel quale da un quinquennio buono si sta seriamente pensando di abbassare l'età legale per avere rapporti sessuali consenzienti a seguito dello spropositato numero di baby-mamme con cui sistema penale e welfare hanno a che fare, 400 delle quali sono infraundicenni (!!!) e i cui fecondi compagni dovrebbero, a norma di codice, trovare albergo nelle patrie galere. Pragmatismo d'Albione, insomma...chapeau!!

Dagli esempi riportati emerge una paradossalità, un'antinomia profonda e insanabile tra forma e sostanza che nella scalcinata e tanto vituperata Italia non avrebbe mai trovato luogo. Eppure abbiamo consentito a cori di ammirate voci bianche di assordarci, di toglierci ragione e sentimento, di demolire il nostro elementare apparato critico: abbiamo ceduto alla vulgata demagogica e strumentale del castismo, il cui unico scopo è stato fin dal principio conculcarci visioni , narrazioni e principi non nostri, assolutamente innaturali e lontani dall'italico comune sentire. Così oggi siamo fermamente convinti che un politico che prende il tram rinunciando all'auto blu sia automaticamente uno statista, che l'abolizione delle Province dimezzerà i costi correnti dello Stato (falso, ma ci torneremo su...), che "sobrietà" e "austerità" siano sinonimi di qualità politica, che il "vero problema è l'evasione fiscale" (nuovamente falso), che la strada per la crescita passi da Serpico e dal dimezzamento dei parlamentari e del loro stipendio (e 2000 impiegati e consulenti del Quirinale con cosa son pagati? Ticket pasto e strette di mano, forse?), che la nuova frontiera di civiltà passi inesorabilmente dagli eco-pass e dai registri delle unioni civili, che la tassa patrimoniale sia buona e giusta tanto che pure Confindustria la chiede a gran voce, dimenticando il particolare non da poco che, contrariamente alle aspettative sognanti del popolino, i capitani di industria non sono fisicamente proprietari nemmeno dei piatti che usano per gustare ostriche e caviale (i quali appartengono invece alle loro holding) e, di conseguenza, chiedono tutti a gran voce un tassa che non li riguarderà nemmeno di striscio. Comodo. E proficuo. Abbiamo consentito, insomma, che i castisti in servizio permanente ci castrassero ideologicamente, degradandoci tutti da "cittadini" a semplice fenomeno sociale, funzionale in primo luogo all'omologazione culturale e politica che la cosiddetta Europa ci impone: omologazione di cui l'attuale esecutivo è solo punta dell'iceberg.

Il punto chiave è oggi il seguente, quindi: mettendoci una manina nei pantaloni riusciamo, per caso, a ritrovare una manciata di palle e a reagire, politicamente of course, di fronte alla svendita all'incanto del nostro Paese? Perché nell'attesa che Re Riccardo torni dalla Siria e cacci a pedate Giovanni e Nottingham, o pretendiamo e otteniamo una nuova Magna Charta oppure non ci resta che Sherwood...

LA STRETTA DELL'EUROCRAZIA SULLE DEMOCRAZIE


di Savonarola

Il cappio dell'Eurocrazia e il disegno che si compie. La tecnocrazia europea lancia l'Opa sulla democrazia dei popoli. Urge una rivoluzione democratica e costituzionale.

È vero: l'Italia è sull'orlo del baratro. Ma non nell'accezione utilizzata poco responsabilmente dal presidente degli industriali Marcegaglia e da altri capitani di ventura del capitalismo italiano e dagli uffici studi che snocciolano numeri e statistiche amorfe. Lo è invece dal punto di vista della sua sovranità politica e democratica.  Se si riesce a guardare in filigrana tutto lo sviluppo degli eventi dal fatidico 5 agosto 2011 ad oggi, si ricava la percezione di un disegno preciso, chiaro e inesorabile, la cui origine è l'ormai celebre lettera del banchiere Mario Draghi, e il cui esito è il volto di Mario Monti e la sua designazione coatta a presidente del Consiglio. A dire il vero, la stretta da parte delle tecnocrazia europea sulla nostra sovranità da qualche giorno è percepibile materialmente anche nelle corpose delegazioni di zelanti funzionari della Bce e del Fmi avvistati nelle sedi del nostro Tesoro, ufficialmente per certificare i nostri bilanci, sostanzialmente per iniziare il commissariamento.

Se però riavvolgiamo il nastro, appare evidente come dietro la favoletta della mancata credibilità di Berlusconi ci sia in realtà il disegno preciso delle grandi lobbies finanziarie mondiali di indirizzare le scelte di tutti i governi europei. La speculazione, nel cui ventre torbido le banche d'affari (Goldman  Sachs in prima fila)  e le consorterie private giocano un ruolo volto alla ricerca demoniaca del profitto, aveva fiutato il sangue già dall'incertezza del direttorio europeo sulla bolla greca e in pochi mesi, approfittando dell'impasse politica dell'Unione e anche della contingenza che vede molti dei governi in carica in fase pre-elettorale,  ha portato un attacco veemente ai sistemi democratici, puntando prima la Spagna e poi l'Italia. La Bce ha avallato questa spirale perché Francoforte, come massima istituzionalizzazione della governance tecnocratica, ha visto nella crisi la possibilità di commissariare i governi democratici e lanciare una sorta di governo degli ottimati sovrannazionale. La regia di Draghi, la designazione di personalità come Papademos in Grecia e Mario Monti in Italia, certificano chiaramente l'esondazione sul terreno istituzionale di circoli illuminati come la Commissione Trilaterale e il Club Bilderberg, consessi in cui questi super tecnici hanno rivestito un ruolo organico e strategico. 

Eppure, dinnanzi a questa invadenza dell'Eurocrazia, il "prego si accomodi" delle democrazie nazionali più deboli non ha fatto che peggiorare la situazione. E d'altra parte aumentano le recriminazioni per una resa troppo prematura. Ma Berlusconi è responsabile di questo fallimento quanto i suoi killers, perché ha cannibalizzato la sua epopea politica in un languido giro di valzer degli equivoci e nella beatificazione del superfluo tatticismo, prestando il fianco, proprio come il decadente impero romano, all'invasione falciatrice dei barbari. Anziché visione lunga e strategica, passo breve e tirare a campare con una pletorica corte di cerimonieri grigi a consigliargli la via dell'amministrazione controllata, quando invece c'era l'impellenza di rovesciare il tavolo. Altra cosa Sarkò, che resiste, fa l'impertinente della sovranità, fa il one man show e pensa "l'Etat c'est moi" quando, per sventare il declassamento, minaccia di annientare il mercimonio scommettitore delle agenzie di rating, altro cancro, altro buco nero del mercatismo finanziario globale. Di altra pasta Frau Merkel, che assicura gli interessi dei panzer e le esportazioni dell'industria pesante di Stato. Per carità, legittima tutela di interessi di sovranità assediate ma ancora forti al gioco della "realpolitik", ancora decisamente vive.   

Noi no, noi siamo democraticamente sospesi, sul ciglio del burrone, politico e sociale. E del resto, come insegnava il susseguirsi drammatico di manovre di risanamento e di tagli sociali imposte alla Grecia, l'avallo degli esecutivi alle indicazioni di Bruxelles non produrrà alcun miglioramento sulla tenuta né tantomeno rassicurerà i mercati e l'orgia speculativa degli spread. Unico risultato: la progressiva stretta, dopo aver avvinghiato i governi democratici, asfissierà le economie sino al loro sfinimento e, forse vero obiettivo delle consorterie tecnocratiche, aumenteranno esponenzialmente i costi sociali, prevedendo un ulteriore  depauperamento dei ceti popolari con misure iper liberiste su welfare e pensioni. Sino all'annichilimento del suicidio, un dato che è triplicato in terra ellenica e di cui anche in Italia le cronache iniziano a raccontare. 

Resa prematura della politica, soprattutto se si pensa che le munizioni dottrinarie esistono e sono in grado di sparare.  Sono ormai molteplici le analisi di fior di economisti indipendenti, da Krugman a Fitoussi, da Deaglio a Quadro Curzio,  e sinanche a Guido Tabellini, per i quali basterebbe che la Bce operasse in via definitiva come prestatore di ultima istanza per garantire i debiti sovrani sul modello adottato dalla Fed e dalla Banca d'Inghiterra,  che assicurano il consolidamento di passivi ben più rilevanti dei nostri.  Fitoussi dice e scrive: austerità è una parola che vuol dire deprivazione, che significa devastazione di tessuto sociale, che come un poderoso tagliaerba rade tutto al suolo senza badare ai particolari - e poi in questo caso i particolari sono le persone, le vite. 

Ma di fronte a questo scenario nefasto e all'Opa ostile lanciata contro i popoli dalla tecnocrazia europea c'è una possibile via d'uscita. C'è un modo per trasformare la crisi di sovranità in opportunità, ed è quello di varare una poderosa rivoluzione democratica e costituzionale su un doppio binario nazionale e sovrannazionale. In Italia, deliziosa preda dei cannibali finanziari ancorché dotata di un antistorico regime parlamentarista con esecutivo pressoché impotente, si deve indifferibilmente varare la grande riforma immaginata da Craxi, in questo statista pan-politico, con un modello presidenziale o semipresidenziale investito dal carisma democratico dell'elezione diretta senza intermediazioni pelose.  In via parallela occorre accelerare  la nuova architettura politica dell'Unione e legare questo processo alla democratizzazione delle istituzioni europee, arrivando al traguardo dell'elezione diretta dei massimi vertici della Commissione e del Consiglio europeo. I popoli europei sarebbero così in grado di scegliere e sanzionare il leader e l'esecutivo dell'Unione  sulla base di un programma e su un'idea idea di Europa, con una nuova consapevolezza sulle decisioni che ormai li riguardano direttamente. D'altra parte le istituzioni elette e legittimate in via democratica avrebbero la forza occorrente per resistere alle pressioni e alle invadenze della tecnocrazia e dei circoli d'affari, capovolgendo il rapporto che oggi prevede che portatori di interessi e lobbies prevalgano sui mandati di rappresentanza. Soluzione a cui dopo tanta inerzia sono arrivati persino i governanti dell'Eurozona. Van Rompuy, presidente nominato del Consiglio europeo, ha infatti scoperto che "senza una reazione dell'Europa i mercati non si placano" e che "è necessaria una modifica dei Trattati per renderla solida e stabile". In buona sostanza, basta fare i lacchè della finanza inseguendo il placet dei mercati. La politica torni a fare la politica, a questo punto anche con una sacra rivoluzione democratica. Rovesciare il tavolo è ancora possibile.

I TECNOCRATI E LA PRESA DEL POTERE. GABER AVEVA PREVISTO TUTTO


di Raffaele Iannuzzi

Gli “omìni della testa” contro gli “omìni del corpo”. I teknocrati, “uomini del cervello”, che disprezzano gli “omìni del corpo”. LORO DEVONO. Cosa? DEVONO FARE QUEL CHE FANNO. LORO HANNO INVENTATO LA STANZA DEI BOTTONI.

Un “omìno” della politichetta (la dis-politica, per noi, uomini dell’unità corpo/mente) si è lagnato con gli “omìni della testa”: BASTA CON IL NOI/VOI… Troppo piccoli, costoro, per parlare la parola verace, come direbbe Lacan; sono, invece, parlati dalle loro tristi paure. E’, d’altra parte, l’età delle passioni tristi, questa, l’abbiamo compreso da tempo. L’ipocrisia che infradicia di nulla la parola. Non c’è la più la presa della parola, quando la parola non è più parlata, ma trascorre tra bar colmi di demagogia e nuovi “castisti”, forse, infine, “castristi” o neo-tali.

Gli “omìni della testa son già seduti in Parlamento”, sono la “nuova razza superiore”, “bellissimi e hitleriani”. Non ce l’abbiamo con loro. E’ tutto perfettamente novecentesco. A Lenin piacevano assai i Teknici, con la kappa, sia chiaro. Ci voleva fare la rivoluzione per davvero, con questa genìa di cortigiani assatanati. Ma è pura Burokrazja, questa, non è la tecnica senza la kappa, quella che serve alla politika, stavolta con l’intensità semantica della kappa, per essere tale, scienza (possibile) di governo e trasformazione (parolona grossa, ci piace, però) della società.

Craxi aveva gli attributi e voleva la tecnica al servizio della politica. Se i Teknici sono, però, burocrati e sfornano dati e cifre, sfarinando la testa degli italioti a sedere nell’aula sorda e grigia, infine gli italiani, infilati nel gorgo del caos mentale e frustrati dall’abortito progetto di una vera classe dirigente post-prima Repubblica, allora tutto cambia. Cambia per non cambiare: i pallidi burocrati hitleriani, nuova razza ariana de noantri, festeggiano l’approvazione della più recessiva e inutile manovra dell’ultimo mezzo secolo di storia repubblicana, mentre gli italiani si preparano ai baccanali natalizi con l’ingordigia di chi vuole ingoiare speranza a mezzo di zampone di maiale.

Vogliamo di più e, per ciò, siamo qui a dire la nostra. Intanto, ci affratelliamo alla comunione dei santi laici che tanto ci piacciono, da sempre: Giorgio Gaber, in primis. Oggi tutti lo scimmiottano, selezionandolo ben bene. Noi lo seguiamo dagli anni universitari, dai focosi e veraci anni Ottanta del secolo scorso, dunque noblesse oblige. Ecco un pezzo magistrale di critica attraverso la parola parlante e sentita, siamo nel 1973. Fate i vostri conti…