di Gianteo Bordero
E’ dalla vita concreta del popolo, dalla sua storia, dalle sue radici, dalla sua creatività, dall’intrapresa di uomini liberi che bisognerebbe ripartire, non da idoli di cartapesta a cui sacrificare, di manovra in manovra, la carne e il sangue di una nazione.
L’unica mistica del sacrificio che ci piace è quella
cristiana, altrimenti detta “ascesi”: qui l’uomo si abbassa per essere innalzato
e il frutto della rinuncia e della mortificazione è, secondo la legge del
paradosso di cui è permeato tutto il Vangelo, la gioia. Morire a se stessi per
vivere in pienezza. All’opposto, riteniamo nefasta la nuova mistica del
sacrificio che ci viene proposta da qualche tempo a questa parte dai
tecno-governanti e dalle alte cariche dello Stato, con un surplus di moralismo
che rende il tutto venefico per noi poveri italiani. Quest’ultima è
semplicemente una mistica depressiva, che toglie e non dà, che abbassa e non
rialza.
Vale infatti per la vita come per la politica: un
sacrificio è assurdo se non c’è un perché, come diceva Pavese. E qui, gratta
gratta, il perché non c’è. Certo, c’è “il debito pubblico da sanare”, c’è “lo
spread”, c’è “il rischio default”, c’è “la fase due”, c’è il “cresci-Italia”
eccetera eccetera, come da impeccabile lezioncina di fine anno del professor
Monti. Ma basta tutto questo a giustificare i sacrifici di un popolo intero?
Ovvio che no. Può dirlo con tutta l’enfasi e la finezza retorica che vuole il
capo dello Stato, tentando a reti unificate di convincerci del contrario, ma
non basta.
Lo insegna la storia: i popoli rinascono, rivivono, si
rimettono in marcia soltanto quando a muoverli c’è un ideale degno di tal nome,
quando uomini che vivono sulla stessa terra, che parlano la stessa lingua, che
condividono le stesse radici hanno davanti a sé una missione di cui essere
protagonisti e non sudditi, eroi e non spettatori paganti, guerrieri e non
ostaggi. Quando c’è da sguainare la spada per difendere se stessi, la propria
famiglia e i propri beni dall’assalto del nemico.
Bene, si dirà, è proprio il caso nostro: oggi
l’aggressore ha le sembianze della speculazione e dello spread, e i cittadini
devono fare i sacrifici per sconfiggerlo. Peccato che questa sia solo la
vulgata propagandata senza posa da giornali, tv e menestrelli di regime. Provate
a chiedere in giro, per le strade e nei bar, chi gli italiani percepiscono come
nemico in questo triste inizio d’anno: avrete una risposta differente. Il
nemico sono le imposte in più, la patrimoniale sulla prima casa, il blocco
dell’adeguamento delle pensioni all’inflazione, le nuove accise sulla benzina,
i rincari delle bollette e via tartassando. Altro che protagonisti, eroi e
guerrieri! Qui ci sentiamo tutti sudditi, spettatori paganti e ostaggi. Non di
un invasore che viene dall’esterno, ma dello stesso Stato italiano e dei suoi
demiurghi, che – scusate la brutalità – fanno i froci col culo degli altri,
cioè il nostro, per onorare non il debito pubblico, ma l’astratto dio del
“rigore” e della “austerità”. Quel dio nel cui nome campano eurocrati e grand
commis di Bruxelles e Francoforte, gente a cui viene l’orticaria al solo sentir
pronunciare le parole “popolo” e, ancor di più, “sovranità popolare”.
Insomma, la verità taciuta è che non si torna a
crescere, non si può tornare a fiorire sulla base di un’astrazione. Perché, per
dirla con Mounier, “è dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente
un parto pieno di gioia e il sentimento paziente di un'opera che cresce, di
tappe che si susseguono, aspettate con calma, con sicurezza”. E’ dal basso, dal
profondo, cioè dalla vita concreta del popolo, dalla sua storia, dalle sue
radici, dalla sua creatività, dall’intrapresa di uomini liberi che bisognerebbe
ripartire, non da idoli di cartapesta a cui sacrificare invano, di manovra in
manovra, la carne e il sangue di una nazione.
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